UNA GIORNATA PARTICOLARE
Intervista a Gianni Lusa, luinese, classe 1934
a cura di Islam Saoudi (cl. 2A sec. Luino – IC B. Luini)
In un caldo pomeriggio appena dopo il 25 Aprile incontro, presso la casa di riposo “Mons. Comi” il signor Gianni Lusa, che 80 fa era un ragazzino appena più piccolo di me e che oggi è un anziano dalla memoria sorprendente.

Gianni Lusa 1 maggio 2019
Circolo di Creva
«Parlare del 25 Aprile è una cosa che mi riporta indietro di tantissimi anni.
Ho 91 anni e quando avvenne il “fatto” del 25 Aprile ne avevo 11 anni e posso raccontare della vita che avevamo prima».
Questa premessa mi fa intuire che sto per ascoltare una storia lunga che il signor Lusa introduce così: «Il 25 Aprile ci siamo liberati dal ventennio di oppressione e gli stranieri sono scomparsi.
Posso dirle che da bambino sono cresciuto con una mentalità dell'epoca: noi eravamo tutti invasati di fascismo, per noi il fascismo era il mondo, figurati che da bambino pensavo che l'Italia finisse a Fornasette!».
Lei andava a scuola a Luino?
Cosa ricorda?
«Ho frequentato qui la scuola elementare e la scuola media inferiore, poi ho fatto una scuola professionale ovvero lavoravo e contemporaneamente studiavo, poi mi sono diplomato 19 anni.
Le scuole medie inferiori di Luino erano lì, dove sono ancora adesso.
Gli alunni, terminate le lezioni, venivano inquadrati nella grande palestra a classi separate e rivolti verso la grande parete dove erano esposti due grandi ritratti raffiguranti uno il Re Vittorio Emanuele III e l’altro il volto di Benito Mussolini.
L’insegnante dava il comando “Saluto al Duce” e gli alunni urlavano in coro alzando il braccio destro al modo del saluto fascista “A noi, Viva il Duce”.
Poi venivano sciolti gli schieramenti e gli alunni erano liberi di uscire.
A scuola andavo in divisa, sempre nella divisa!
Quando ci si muoveva eravamo sempre inquadrati, sempre alla militaresca, eravamo dei piccoli militari inquadrati.
Da giovanotto, ridendo, rimproveravo mia madre: “Dovresti vergognarti, appena nati io e mia sorella ci avete venduti alla patria”.
Questo perché io ero figlio della Lupa e mia sorella una Piccola italiana.
Avevamo una divisina con i pantaloni grigioverdi, copri-calze nere, camicetta nera, i nastri di cui uno a M che voleva dire Mussolini.
Poi sono passato di categoria in quinta elementare e allora sono diventato Balilla, con i pantaloni neri, camicia nera, foulard azzurro, il berretto fez con una gran patacca col viso di Mussolini.
Diciamo che per noi era bello e io ero orgoglioso quando mettevo la divisa e andavo al sabato fascista.
Quando si era per strada e si incontrava, ad esempio, un maestro o una personalità in divisa bisognava fargli un saluto fascista… e mi ricordo che i maestri, appena finita la guerra, dicevano: “Adesso, bambini, il periodo del saluto è finito però se per caso vedete qualcuno e vi scappa la mano, voi fate tutto per camuffare, per mascherare”».
Quali sono i suoi ricordi del 25 Aprile?
«Il 25 Aprile è stata una giornata in cui erano tutti in festa e io non riuscivo a capire il perché di tutta quella festa. Però sapevo che c’entrava con l'oppressione, perché la mia famiglia stessa l’ha subita.
Papà è stato in Germania per quattro anni.
Papà aveva fatto la guerra del ’15-‘18 (la Prima guerra mondiale) ed era Cavaliere di Vittorio Veneto, era un decorato della Grande guerra ma siccome qui c'era una carenza di lavoro e prendevano 40 volontari che andassero a lavorare in Germania, lui è partito.
In casa eravamo io e mamma, mia sorella era già morta.
Ecco che allora il 25 Aprile mi ha liberato un po’ il pensiero su mio papà: “Ora lo rivedo”, mi sono detto».
Il signor Lusa mi guarda nuovamente anticipandomi, con lo sguardo, che vuole dirmi qualcos’altro: «Devi capire un fatto psicologico: io vedevo gli uomini per strada e mi chiedevo “Chissà se somiglia a mio papà”, perché nel 1940 quando lui è se ne è andato io avevo sei anni e non avevamo fotografie, quindi mi affidavo alla memoria del suo volto.
Per me è stata una sorpresa enorme quando lo vidi la prima volta nella giornata del 25 Aprile».
E poi continua: «Feste grandi, tutti.
Gli antifascisti e i partigiani che erano in montagna in quei giorni son ritornati e hanno cominciato a requisire coloro che avevano fatto del male.
Io mi ricordo che alcune persone le hanno fucilate a Luino.
Uno lo conoscevo personalmente perché abitava in via Cavallotti dove abitavo io, era tassista e in quel periodo lì lui era “il padre eterno” e l'essere amici dei suoi figli, che avevano pressappoco la mia età, era un vantaggio».
Cosa altro ricorda dell’oppressione?
«Noi abbiamo sofferto la fame, io ho sofferto la fame.
A tavola avevamo pane razionato 150 grammi al giorno da dividere anche con il nonno, che poi è morto.
Il razionamento vuol dire che non c’erano tutte le derrate alimentari, che per comprare generi alimentari ogni famiglia aveva una tessera che veniva distribuita dal Comune dove c'erano tanti bollini che si riferivano a un giorno, c’erano la tessera della verdura e la tessera della carne.
Già, la carne una volta ogni tanto… io mi ritengo fortunato perché sono nato e cresciuto in via Felice Cavallotti, che è una via storica, una strada-contrada, e lì tagliavano i cavalli e poi li esponevano fuori sul muro verniciato, e insomma noi ragazzi passavamo tante volte proprio per la soddisfazione di dare una pacca al cavallo…
Noi eravamo fortunati perché, essendo vicini a questa macelleria, ogni tanto c'era la possibilità di avere qualche frattaglia in più.
Mi ricordo che mia madre faceva il brodo con la gamba di cavallo: va’ a immaginarsi cosa usciva, era acqua bollita che sapeva di qualche cosa però era qualcosa.
Per il resto nella contrada ci si arrangiava.
C’era il fruttivendolo e quando arrivava un fornitore noi bimbi uscivamo fuori tutti, e ci si metteva in fila: davanti ai negozi c’erano le fila di persone che andavano a prendere la parte che gli spettava e anche lì da fruttivendolo, ogni tanto, sortivo qualcosa in più.
Poi ai giardini pubblici c'erano i pezzi di verde del comune e siccome c'era l'autarchia, e c'era carenza anche di verdure, nei giardini pubblici avevano fatto gli orti di guerra dove si piantavano patate, pomodori, cipolle.
Io avevo due cugini che suonavano nella musica cittadina che aveva la sede sotto le scuole elementari; lì davanti c’era un giardino grande dove tante volte, quando uscivano dalla scuola di musica che magari erano le 10:30/11 e erano poco controllati, passavano e prendevano qualche cipolla o patata, le infilavano nel trombone.
Dunque quella verdura lì veniva prodotta dal comune, dall'ufficio annonario.
C'erano i negozi, dove si andava con la tessera data dall’ufficio annonario che controllava la quantità di cibo.
Insomma l’abbiamo vissuta così, noi, la nostra gioventù».
Mi diventa sempre più chiaro perché non sia possibile parlare della Liberazione senza riferirsi a tutto quello che è avvenuto sotto la dittatura fascista.
Il 25 Aprile 1945 l’Italia si liberava dall’occupazione nazi-fascista e dalla dittatura che aveva condotto il Paese in guerra a fianco della Germania di Hitler.
Il 25 Aprile 1945, dunque, per l’Italia terminava sì la Seconda guerra mondiale ma anche un periodo molto difficile iniziato un ventennio prima dello scoppio della guerra a causa del regime fascista imposto da Mussolini. «Vedi, non si può parlare di 25 Aprile in sé stesso perché ci siamo arrivati dopo questa esperienza quotidiana, queste cose qua» mi ripete, più volte, il signor Lusa.
«Era il clima che si viveva prima che ti fa capire il 25 Aprile». «Mi ricordo che quel giorno lì era tutto un grande festeggiamento, gente che correva in giro, gente con le bandiere che sventolavano, tutti che erano allegri e cantavano e ballavano.
Pensa che nel periodo del fascio erano proibiti anche i locali da ballo.
Essendo socialista, mio padre era stato anche imprigionato dai fascisti perché una volta si trovava in una sala da ballo dove è morto un fascista e allora hanno preso tutti i socialisti, li hanno messi dentro e così mio padre ha fatto 82 giorni di prigione, naturalmente senza essere né imputato né processato.
Hai in mente i cortili del centro storico?
Sono tanti cortili e a tutti i portali vedevo che nel cortile c'era una festa, c'era un'orchestrina che si divertiva a suonare.
Chi possedeva un piccolo strumento musicale lo suonava… erano proprio feste e tutte le sere successive erano così, tant'è vero che è andato avanti più avanti più giorni».
Quindi Lei, come bambino, all’inizio sentiva che c'era qualcosa di nuovo?
«Quando c'è stato quel momento lì, mi son trovato fuori dal mondo: non sapevo, non sapevo cosa succedesse, perché c'era un'orchestra che si esibiva al numero 16 di via Cavallotti (allora si chiamava via Michele Bianchi); era composta da quattro amici, legati oltretutto anche da tazze di buon vino.
Erano chiamati “Peter, Ciapusch, Carlin e Fontebuoni” e ottenevano successi allegramente ripagati.
Era una festa popolare, i partigiani erano scesi dalla montagna, c'era baldoria… però all'inizio io non riuscivo a capire perché tutto questo, con tutte le restrizioni che avevamo allora.
La cosa più bella è stata quando siamo riusciti ad avere la luce, le luci per strada!
Durante la guerra eravamo al buio.
Da qui noi guardavamo Brissago, le isole, la Svizzera dove si vedevano le luci accese, invece qui era tutto buio.
E quando ci sono riusciti a illuminare qui, anche se non tutti i lampioni perché gli impianti che c'erano erano relativi e vecchi, un lampione qui e uno là, a noi sembrava meraviglioso!
Pensa che mi ricordo mia madre e le sue sorelle (nello stesso caseggiato eravamo quattro famiglie, mia madre era una di cinque fratelli) che si riunivano la sera e dicevano “Andiamo a vedere il lusso”, uscivano alla sera dopocena per andare all’imbarcadero a vedere le luci accese perché era uno spettacolo dopo gli anni al buio.
Pensa allo stato d'animo.
Adesso io non so se tu puoi capirlo lo stato d'animo che avevamo noi, perché io lo vivo ancora, me lo sento dentro.
Ho una memoria di ferro anche per quelle emozioni e mi ricordo tantissimi particolari».
Come funzionava il coprifuoco?
«Il coprifuoco iniziava alle 9 di sera e durava fino alle 6 del mattino, quando uscivano quelli che lavoravano. Se ti prendevano perché eri in giro, dovevi avere ragione plausibile come andare dal medico, ma se ti dicevano “Tu vieni in caserma”, tu dovevi andare e farti interrogare».
Il signor Lusa continua con i suoi ricordi luinesi e ci sono ancora tanti “quadri” che non ho ancora riscritto: la Guardia nazionale repubblicana, la milizia confinaria, il comando della brigata nera a Villa Sanvito dove anche i bambini sapevano che avvenivano le torture, la scuola e il sabato fascista, il bombardamento a Villa Castiglioni, il commissario alloggi e gli sfollati… sarà interessante continuare.
Prima di andare gli chiedo cosa direbbe ai ragazzi che provano attrazione per il fascismo?
«Nelle scuole tante volte si trovano i ragazzi che pensano che Mussolini abbia dato all'Italia il posto che le spettava nel mondo, mentre non è vero.
Non è riuscito a far niente, ha solo promesso tante cose.
Per dire come siamo arrivati ad avere un Paese libero, alla Liberazione del 25 Aprile, si deve partire dal 1924, quando è arrivato il fascismo e ha bastonato. Bisogna che si studi la storia».

Gianni Lusa e la moglie
Si ringraziano per la disponibilità: Gianfranco Malagola (mons. Comi), Verena Merli (IC B. Luini), Giovanni Petrotta e Emilio Rossi (ANPI Luino)